LA STORIA DI ZANZANU'


 

Giovanni Beatrice, detto Zanzanù, nacque nel 1576 a Gargnano, terra della Riviera di Salò e suddita della Repubblica di Venezia. Di lontane origini trentine, alla metà del ‘500 la famiglia Beatrice risulta ben integrata nel tessuto economico e politico gardesano: il padre di Giovanni Beatrice era un mercante, e ricoprì diversi incarichi nel Consiglio della Comunità di Gargnano. Risale ai primi anni del ‘600 il violento conflitto che contrappose i Beatrice ai Sette, potente famiglia di Monte Maderno. La causa scatenante furono le azioni criminali condotte dall’ecclesiastico Giacomo Sette per sottrarre l’arcipretura di Maderno al rivale Domenico Pullo.
Sposato con Caterina Pullo, Giovanni Beatrice finì per essere coinvolto nel conflitto e, a maggior ragione, a seguito dell’assassinio di Ambrogio Pullo, fratello di Domenico e della stessa Caterina. Con l’aiuto dello zio Giovan Francesco, Giovanni Beatrice tentò di vendicare il cognato durante la rassegna militare che si tenne a Bogliaco il 24 marzo 1602: lo scontro si concluse con il ferimento di Francesco Sette (fratello di Giacomo) e con l’uccisione di un suo compagno. Sull’episodio si espresse il Senato veneziano, punendo entrambi i Beatrice con il bando perpetuo.
Coinvolti in una fitta rete di faide familiari, anche i Sette furono severamente colpiti dalla giustizia, seppur per altri crimini. Nel 1603 Riccobon Sette, indiscusso capofamiglia, fu incarcerato a Salò. Privati della protezione del padre e già banditi dalla Serenissima, Giacomo e Francesco Sette finirono entrambi assassinati per mano di famiglie rivali. La situazione critica favorì un riavvicinamento tra i Sette e i Beatrice: il 30 agosto 1603 le due famiglie strinsero una pace solenne nel convento di San Francesco di Gargnano. Si trattò, tuttavia, di una soluzione momentanea: uscito dal carcere e ripreso il controllo della situazione, Riccobon Sette ordinò l’assassinio a tradimento di Giovanni Maria, padre di Giovanni Beatrice.
L’omicidio avvenne il 3 maggio 1605 sotto la loggia di Gargnano e scatenò l’immediata reazione dei Beatrice. Sotto la guida dello zio Giovan Francesco, Giovanni Beatrice costituì un gruppo armato noto come banda degli Zanoni, dal soprannome con cui era conosciuto il ramo principale della famiglia Beatrice. Braccata da cacciatori di taglie e dai soldati del provveditorato veneziano di Salò, la banda ingaggiò violenti scontri con i Sette, riuscendo, infine, ad eliminare lo stesso Riccobon (19 giugno 1607). La vendetta dei Beatrice, accompagnata da una fiorente attività di contrabbando, sconvolse i delicati equilibri sociali, politici e economici della Riviera di Salò, attirando sulla banda Zanoni potenti inimicizie.
Con l’assenso e il supporto dell’autorità veneziana, figure rilevanti del ceto mercantile gardesano organizzarono una feroce caccia all’uomo che, negli anni successivi, portò alla decimazione della banda Zanoni e alla morte di Giovan Francesco Beatrice (1609). Rimasto a capo della banda, ormai coinvolto nei conflitti interni al ceto mercantile gardesano, Giovanni Beatrice divenne oggetto di delazioni e false accuse: in maniera pretestuosa gli fu attribuito anche l’omicidio di Bernardino Ganassoni, Podestà di Salò (1610).
La condanna fu tremenda: Giovanni – e con lui la moglie Caterina – fu colpito da una nuova sentenza di bando che prevedeva, tra l’altro, l’abbattimento della casa di famiglia e il sequestro di tutti i suoi beni. Le azioni di rappresaglia – su tutte il rapimento del mercante veneziano Stefano Protasio (1611) – lasciarono presto il passo alla decisione di abbandonare la Riviera di Salò. Tra il 1612 e il 1615 Giovanni Beatrice è segnalato a Parma, condottiero militare al servizio del duca Ranuccio Farnese. Si trattò di una breve parentesi di tranquillità in un’esistenza vissuta al di fuori della legge e che sarebbe terminata a Tignale il 17 agosto 1617. La furiosa battaglia che vide la morte di Giovanni Beatrice detto Zanzanù è il soggetto del maestoso ex-voto commissionato dalla Comunità di Tignale al pittore Giovanni Andrea Bertanza (attivo tra fine ‘500 e inizio ‘600).

La battaglia
Nel 1615 Giovanni Beatrice detto Zanzanù tornò nei territori della Riviera di Salò. Con il supporto di una fitta rete di sostenitori, il bandito avviò un’intensa azione di disturbo, contraddistinta dal sequestro dei suoi avversari a scopo di riscatto. Giovanni Beatrice, con ogni probabilità, intendeva chiudere con il suo passato. Nel giugno del 1616 presentò una supplica al Consiglio dei dieci, massima magistratura criminale della Repubblica di Venezia: in cambio della liberazione dal bando si offrì come soldato nella guerra in corso tra Venezia e l’Austria (Guerra di Gradisca, 1615-1617).
Documento straordinario, la supplica ripercorre le tappe essenziali della vita del celebre bandito: il primo bando e la vendetta contro i Sette (1602- 1607), la violenta repressione condotta da Venezia e dal notabilato locale (1607-1610), le false accuse nei suoi confronti (1610), la scelta di ritirarsi a Parma e di mettersi al servizio dei Farnese (1612-1615). Il clima di severa repressione del banditismo fece sì che la supplica non fosse accolta, aumentando il risentimento di Giovanni Beatrice verso Venezia. L’anno successivo maturò il progetto di un’eclatante azione di disturbo nell’Alto Garda bresciano: partito dal Piacentino intorno al 10 agosto 1617, Giovanni Beatrice raggiunse Tignale nel giro di una settimana, con cinque uomini al seguito.
All’alba del 17 agosto il bandito piombò su Gardola e riuscì a rapire il notabile Giovanni Cavaliere. L’allarme dato dalle donne di casa Cavaliere e la campana di Gardola suonata a martello scatenarono l’immediata reazione dei tignalesi. Le prime sparatorie spinsero i banditi a ripiegare a nord-ovest, dalla piana di Olzano alla Valle del Lunè, in direzione del vicino confine: approfittando della precipitosa ritirata, l’ostaggio riuscì a liberarsi e a fuggire. Posti sul confine arciducale, i sei villaggi di Tignale mostrarono una sorprendente efficienza militare, muovendosi all’unisono per tagliare la strada ai banditi.
Braccati all’altezza delle Visine, incalzati da un carro fortificato, Giovanni Beatrice e i banditi superstiti riuscirono in una sortita disperata per poi trincerarsi più a sud, nella valletta delle Monible, nei pressi dell’attuale ponte Pidos. A sera, l’arrivo dei soldati di Gargnano segnò la fine dei combattimenti e la morte di Giovanni Beatrice. La dinamica della battaglia trova riscontro nell’ex-voto realizzato nel 1618 dal pittore Giovanni Andrea Bertanza, probabile testimone oculare di quegli eventi. Gli atti processuali aiutano a comprendere le motivazioni che spinsero Giovanni Beatrice a tentare quella che sarebbe stata la sua ultima impresa. L’incursione fu concepita e realizzata grazie a una diffusa rete di appoggi locali e, molto probabilmente, con il significativo sostegno di altolocate personalità filo-asburgiche. Va inoltre considerato il tragitto percorso da Zanzanù da Desenzano a Tignale: una direttrice parallela e inversa rispetto a quella seguita dal Provveditore veneziano Giustiniano Badoer, impegnato, proprio in quei giorni, nell’ispezione dei confini rivieraschi.
Dato non irrilevante, tra il 14 e il 15 agosto 1617 il Provveditore era stato a Tignale, ospite di quel Giovanni Cavaliere che, solo due giorni dopo, sarebbe stato rapito da Giovanni Beatrice. Da considerare, infine, la singolare coincidenza tra l’incursione di Giovanni Beatrice e il battesimo del figlio del Provveditore Badoer, tenutosi a Salò il 17 agosto 1617. Azione dalle forti implicazioni simboliche, l’incursione di Giovanni Beatrice si riproponeva di mettere in discussione l’efficacia dell’apparato difensivo approntato dalla Serenissima e di screditare agli occhi della popolazione l’immagine del Provveditore Badoer e del ceto dirigente rivierasco. In tal senso, la battaglia di Tignale è da interpretarsi come l’ultima sfida lanciata da Giovanni Beatrice contro l’autorità veneziana, tragica conclusione di un’esistenza vissuta al di fuori della legge.

Il dipinto
Il mito di Giovanni Beatrice non sarebbe giunto sino a noi se la Comunità di Tignale, protagonista della battaglia non avesse deciso di immortalare l’evento e di offrirlo in ringraziamento alla Madonna di Montecastello. Esposto ancor oggi presso il santuario tignalese, il grande dipinto è attribuito al pittore Giovanni Andrea Bertanza da Gargnano (attivo tra fine ‘500 e inizio ‘600). Probabile reduce della battaglia, Giovanni Andrea Bertanza rese gli eventi in una sequenza filmica di grande impatto: con ogni probabilità il pittore volle rappresentarsi in quell’uomo che, unico in tutto il dipinto, fissa lo spettatore. Giovanni Beatrice, al contrario, è ripreso in tutte le fasi del combattimento, sino alla sua morte: la sua ultima sortita è descritta nei minimi particolari.
Drammatica la sequenza della corsa affannosa verso valle con a fianco un compagno sul cui viso è impressa la morte ormai imminente. Nel complesso, la narrazione è tracciata ricorrendo a una descrizione dai toni epici. Il trasbordare rumoroso degli avversari, i fitti lanci di pietre e il frastuono rosso delle archibugiate, contrastano con la solitudine disperata che segnò la fine del fuorilegge.
Il suo corpo abbandonato, disteso ai piedi di un grande macigno, è lambito da uno dei due ruscelli che costeggiano la valle delle Monible; tutto sembra solennemente ruotare attorno a lui, anche i gruppi compatti degli uomini della comunità, protesi aggressivamente in avanti con i loro archibugi. Rappresentazione retorica dell’impresa della Comunità e della grazia divina, il dipinto esprime un pathos che investe lo stesso bandito e i suoi compagni: la tragicità dell’evento, rischiarato dalla grazia divina, sembra averli posti, anche se da sconfitti,in quella stessa aura di eroismo che anima la tensione dei corpi degli attaccanti.
È Giovanni Beatrice il vero protagonista del dipinto e di quel giorno memorabile: le sue imprese precedenti sembrano riscattarsi in quella morte tragica e inesorabile. Il pittore, forse inconsapevolmente, riuscì ad esprimere magistralmente tutta l’ambiguità insita nell’immagine del bandito contribuendo a costruire la sua futura memoria: quello Zuanne Zanon (Giovanni Zanon) ripetuto più volte a fianco della figura di Giovanni Beatrice, si sarebbe successivamente trasformato nell’efficace contrazione Zanzanù.
A livello colto, Giovanni Beatrice, ormai divenuto Zanzanù, sarebbe stato ricordato per le sue malefatte e per i crimini che gli erano stati attribuiti. Solamente nel folklore locale e nella tradizione orale il mito del famoso fuorilegge avrebbe mantenuto tutta la sua complessità, giungendo a noi in tutta la sua affascinante ambiguità.